Nell’angolo più meridionale della Georgia, dove il confine, tracciato nel mezzo di un grande altopiano, incontra la Turchia e l’Armenia, un fiume scorre con foga verso nord dopo aver raccolto le nevi dell’Anatolia settentrionale; dopo aver raccolto le acque del Caucaso minore e del Caucaso maggiore, taglia in due la pianura Georgiana ed entra in Azerbaijan, quando ormai la sua forza è stata addomesticata e placata, e infine deposita le sue acque calme nel Mar Caspio.

Questo è il fiume Kura, chiamato così in onore di Ciro il Grande di Persia, uno dei grandi fiumi della storia della civilizzazione umana, le cui sono sponde sono state abitate per oltre 7000 anni, e fonte di vita per migliaia di generazioni. In questo angolo della Georgia, un complesso monastico di frati ortodossi scavato dalla roccia sovrasta la valle sottostante. Castelli e fortezze si aggrappano ai costoni della montagna da cui scendono gli affluenti che si uniscono al grande fiume, testimone di ondate di eserciti ed invasori che lo hanno oltrepassato da est e ovest. Il fiume continua a scorrere, oltre le barriere astratte dei confini, e oltre le barriere reali e molto solide delle dighe costruite per sfruttarne l’energia.

In questo angolo di mondo si trova solo una manciata di villaggi lungo il fiume, imperturbati dalle poche auto che passano e gli autobus con i turisti in visita al monastero di Vardzia. Gli abitanti passano le giornate prendendosi cura dei giardini, preparando il vino, e portando le vacche ai pascoli sui costoni della montagna. Nel corso dei millenni, il fiume ha scolpito il paesaggio, scavando il terreno creando un canyon profondo con pareti ripide su ogni lato. Spogli e senza alberi, ma splendono verdi con il riflesso del sole al tramonto; acqua sgorga e scorre da ogni direzione, fuoriuscendo dal terreno e dalla roccia, creando piccoli ruscelli che si rafforzano prima di raggiungere il fiume ruggente a valle.

Seguimmo un sentiero fangoso che saliva su un lato del canyon, saltando di continuo sopra i ruscelli, gli scarponi sguazzando ad ogni passo. Continuammo per un centinaio di metri fino a raggiungere una serie di prati terrazzati dove l’erba cresceva alta ed abbondante. Da un punto strategico potevamo vedere le rovine di un castello che domina un promontorio sull’altro lato del fiume, e il contorno della valle nella sua discesa dalle montagne turche più a sud. Vacche pascolavano nei prati più elevati, ma furono presto richiamate a scendere, ogni piccola mandria seguendo la campana del capo.

Montammo la tenda e passammo la serata saltellando su massi e tra i ruscelli fino a trovare una piccola cascata, l’acqua che sgorgava letteralmente dalla roccia. Con il calare del sole, le ombre giocavano con il paesaggio creando migliaia di sfumature di verde e blu. Ci svegliammo presto il giorno successivo e cominciammo la scalata per raggiungere l’altopiano sovrastante. Non sapevamo cosa aspettarci, e non c’era alcun sentiero. Dovevamo trovare la nostra strada, cercando le inclinazioni più dolci, camminando di lato per rendere l’ascesa meno pesante per le nostre gambe. Il sole inclemente direttamente sulle nostre teste, ci ritrovammo presto con gli zaini appesantiti appiccicati alla schiena.

Infine l’altopiano: perfettamente piatto ed esteso fino all’orizzonte. Completamente spoglio. Nessun albero, solo una gialla steppa polverosa coperta di erba secca. Un villaggio si aggrappa sul ciglio del canyon. Camminammo tra i giardini delle case fino a crollare su di una panchina, senza poter più reggerci in piedi. Una famiglia del villaggio ci invitò nella loro casa a mangiare pane vecchio e del formaggio salato. Gli abitanti del villaggio erano tutti Armeni, e a prima vista sembravano molto più poveri degli altri villaggi che avevamo attraversato a valle. Il paese si trovava alla fine di una strada sterrata, al limite dell’altopiano sovrastando la valle ed il fiume. Arrivammo in un giorno di festa, l’ultimo giorno di scuola, e tutte le famiglie si dirigevano in direzione della chiesa indossando i vestiti migliori per l’occasione, salutandoci per strada e probabilmente chiedendosi che ci facessimo lì, mentre i bambini ci chiedevano di farsi fotografare.

Lasciammo il villaggio prendendo la strada sterrata. La nostra mappa mostrava un lago ed un altro villaggio distante circa dieci chilometri. Intorno a noi regnava il silenzio dei campi, delineati dai contorni delle montagne all’orizzonte; il vento pieno di polvere ci colpiva in viso dandoci una sensazione completamente diversa dalla tranquillità della valle lussureggiante che avevamo lasciato quella mattina. L’aria ricca e bagnata che avevamo respirato vicino al fiume si era trasformata improvvisamente in un paesaggio secco ed arido, facendoci immaginare di essere in qualche steppa centrasiatica. Un paio di vecchie auto sovietiche portando parenti in visita al villaggio alzarono folate di polvere, facendoci tossire per strada.

Questo è l’altopiano del Javakheti, perfettamente piatto come una pianura, ma oltre 2000 metri sul livello del mare. Finalmente accettammo un passaggio. Passammo il resto della giornata in autostop e guidando attraverso l’enorme altopiano, passando accanto a laghi ghiacciati alimentati da migliaia di ruscelli che discendevano dalle montagne. Accanto alla strada tortuosa si può notare una ferrovia in costruzione, finanziata dall’Unione Europea e dalla Turchia che eventualmente collegherà Baku e i giacimenti di gas del Mar Caspio con l’Occidente. In questo vasto territorio quasi vuoto, lontano dai centri, dalle città e dalla modernità, potemmo vedere come venissero costruite quelle linee visibili che così spesso diamo per scontate, rotaia dopo rotaia, gasdotto dopo gasdotto, dal Mar Caspio attraverso le valli e gli altopiani Georgiani, passando per l’Anatolia ed infine per la Grecia e l’Europa. È qui che le linee immaginarie dei nostri confini prendono forma. Dove le vie, i binari ed i gasdotti vengono progettati e costruiti, attraversando paesi alleati, evitando con attenzione altri (Russia ed Armenia), in un gioco di geo-politica internazionale giocata nelle lobby degli alberghi di lusso, ma le cui conseguenze si possono vedere e toccare in queste terre lontane dove fioriscono i gasdotti, condotti silenziosi di quella nuova via della seta che collega l’oriente con l’occidente.

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