Quando siamo arrivati in Armenia avremmo voluto aver passato più tempo in Georgia. Una volta attraversato il confine in Iran, volevamo essere ancora in Armenia.
Le linee tracciate sulla sabbia delimitando un pezzo di terra da un altro non ci importavano molto comunque, se non per le lunghe attese al confine, e la soddisfazione irrazionale di ritrovarci con un altro timbro sui passaporti.
Ma continuando verso sud, la difficoltà di concentrarci sul viaggio si è fatta sentire sempre di più, per il caldo soffocante, l’aria più asciutta, e le gambe sempre più stanche con ogni giorno che passava.
Le lunghe e noiose procedure ad ogni confine ci hanno spinto a chiederci sempre più spesso quali fossero le differenze reali ed immaginate che dovrebbero delineare, e le differenze che creavano loro stesse con la loro presenza.

Quando queste linee furono tracciate probabilmente non dividevano molto al tempo. Le comunità della regione avevano permeato le valli e si spostavano flessibilmente da una all’altra senza preoccuparsi troppo di controlli di frontiera e domande di visto. Ma da quando le linee immaginarie hanno creato barriere immaginarie, hanno anche avvalorato segnali più forti di differenziazione tra le persone, incitando le identità nazionali e gli orgogli culturali puntando le dita attraverso le frontiere.

E così l’Armenia era molto diversa dalla Georgia. E l’Iran completamente diversa dall’Armenia, nonostante le distanze attraversate fossero minuscole, appena poche centinaia di chilometri.

L’Armenia fu un allo stesso tempo una grande sorpresa e niente di particolarmente nuovo. Dopo la catena del Caucaso Maggiore, non potevamo immaginare cosa potesse ancora impressionarci. L’Armenia ci ha impressionato. È famosa per i monasteri e per ospitare una delle culture continuative più antiche d’Europa, una delle prime società cristiane in seguito agli sforzi di San Gregorio Illuminatore che trasformò l’Armenia nel primo regno cristiano.
Altro elemento che ha contribuito a definire l’identità armena moderna è il genocidio degli Armeni compiuto dall’Impero Ottomano nel 1915, che ancora oggi lo stato Turco nega ferocemente. La ricerca del riconoscimento internazionale  del genocidio determina gran parte della politica e propaganda di stato Armena, influenzando fortemente l’identità nazionale del paese, con cartelloni e poster di commemorazione che occupavano moltissimi degli spazi pubblici e urbani, ancor di più durante il nostro viaggio nel 2015, anno che ha marcato il centenario del genocidio.

Tuttavia, ciò che ci ha impressionato di più, come sempre, è stata la natura, e la perfetta armonia con cui i monasteri che abbiamo visitato si mescolassero perfettamente con l’ambiente intorno. L’intero paese era in fiore, e il verde dominava ogni immagine mentale che ricostruivamo a fine giornata. Le montagne erano più morbide e più accoglienti delle vette ruvide del Caucaso Maggiore, e la maggior parte delle nevi si era sciolta dal momento che viaggiavamo verso sud.

Ognuno dei monasteri visitati era situato in un luogo apparentemente inaccessibile, ma era ovvio che lo stato si fosse assicurato che potessero essere ora raggiunti comodamente in auto, così da portare più pellegrini e turisti in visita. Così era per il monastero di Haghartsin, in rovina finché l’Emiro di Sharjah negli Emirati Arabi non ha deciso di donare fondi per restaurare completamente la struttura nascosta in una densa foresta di verde scuro nel nord dell’Armenia.
Khor Virap, il monastero da cartolina, appena pochi chilometri a sud di Yerevan, si adagia dolcemente su una piccola collina guardando nostalgicamente il gigante del Monte Ararat, distante solo alcuni chilometri, ma interamente dentro i confini della Turchia, simboleggiando perfettamente quella crisi d’identità Armena: il più importante simbolo del paese, il monte dove Noè fermò l’arca, tenuto “in ostaggio” dalla Turchia, un paese in cui la maggior parte degli Armeni non può entrare.

 

Il monastero di Noravank, una struttura del tredicesimo secolo insinuato in fondo ad una valle verdeggiante simile ad un canyon fiancheggiato da rupi rosso acceso, fu il più difficile da raggiungere: piuttosto che arrivarci in autostop abbiamo percorso tutti i 12 kilometri salendo per la valle, e giungendo a destinazione in tempo per il tramonto. Abbiamo fissato la tenda sul lato opposto della gola in una piccola apertura tra l’erba altissima, con una vista sul monastero, mentre la roccia rosso sangue si imbruniva con il calare del sole. Il monastero si sviluppa su due piani, il secondo raggiungibile da due simmetriche strette scale di pietra che salgono sulla facciata della chiesa. Noravank era il monastero principale del distretto di Syunik, controllato dalla dinastia degli Orbeliani, esperti diplomatici, tanto da riuscire nell’impresa a fare accordi con gli invasori Mongoli nel 13° secolo e permettere alla regione di essere un feudo libero da tasse, finché non è caduto insieme a Tamerlano un secolo più tardi con lo sgretolamento di tutto l’impero Mongolo.

 

Il giorno successivo abbiamo ripercorso il cammino lungo la stessa gola di prima mattina e passato il resto del giorno in autostop verso est e sud. Mentre aspettavamo il nostro prossimo passaggio in un piccolo villaggio sulla strada principale abbiamo incontrato un uomo con il figlio che ci ha invitato a pranzare nella sua casa. Come molti Armeni, lavorava in Russia come operaio, tornando a casa solo poche settimane all’anno a visitare la moglie e i figli. Durante il pranzo abbiamo finito mezza bottiglia di vodka fatta in casa, brindando ad ogni sorso come facevamo anche in Georgia. Fortunatamente ci è stata servita anche il migliore tè alla menta che avessimo mai trovato per calmarci la pancia, donandoci un pacco colmo di menta assicurandosi che non ci mancasse mai più per il resto del viaggio.

Abbiamo continuato a viaggiare verso est, salendo fino al passo più elevato dell’altopiano meridionale dell’Armenia, il Vorotan Pass a 2179 metri, sfrecciando lungo le strade tortuose su vecchie Lada sovietiche color pastello. In poco tempo eravamo già in direzione del Wings of Tatev, la più lunga cabinovia del mondo, 5.7 kilometri, sospesa oltre 300 metri sopra la gola del Vorotan, arrivando al promontorio sul lato opposto dove si trova il monastero di Tatev.

Il monastero di Tatev, costruito nel 9° secolo, è uno dei più antichi e più famosi in Armenia. Si erge sul ciglio di un promontorio sopra il canyon del fiume Vorotan, le fondamenta del monastero scavate dentro la roccia.

Siamo arrivati tardi la sera, e così con nessuno nei paraggi, abbiamo montato la tenda nel giardino del monastero, lungo le mura senza che ci notassero. Al risveglio all’alba abbiamo camminato lungo le antiche mura del complesso, prima che i monaci si svegliassero, esplorando alcune delle stanze che scendevano lungo la roccia, affacciandoci dalle finestre sporgendoci nel vuoto a guardare il fiume che ruggiva centinaia di metri più in basso.
Tutto quello che ci restava da fare era riprendere il cammino lungo il villaggio ed il bosco per scendere al fiume. Il sentiero scompariva nella vegetazione fitta, e presto ci ritrovammo a scendere seguendo l’istinto attraverso il bosco. L’unico modo per orientarci era seguire il fragore del fiume in piena. Poi, come in un’apparizione, abbiamo incrociato un vecchio uomo ubriaco che saliva per il monte in direzione opposta in sella al suo cavallo. Urlando e gesticolando ci rassicurò che eravamo sulla strada giusta, ed infatti poco dopo ritrovammo il sentiero, attraversando un vecchio ponte in pietra medievale, l’unico elemento fatto dall’uomo che abbiamo incrociato da quando avevamo lasciato il villaggio molte ore prima.

 

Il fiume era gelido, ma ci siamo tuffati ugualmente mentre aspettavamo che il sudore si asciugasse dai nostri vestiti. Il peggio doveva ancora venire, dal momento che il lato meridionale della montagna ci aspettava, completamente nuda ed infuocata sotto i raggi del sole. La salita era ripida e massacrante, gli zaini appiccicati alla schiena. Attraversammo i resti di un piccolo villaggio medievale curdo, e poco dopo le case abbandonate di un villaggio Armeno che era stato ricostruito in cima al promontorio in seguito ad un terremoto in epoca sovietica.

 

Barcollando per superare il ciglio della falesia, ci siamo ritrovati sul vasto altopiano dell’Armenia meridionale, con i suoi prati in fiore colorati di verde, rosso e giallo, e le Lada sovietiche con tinte pastellate che ci avrebbero accompagnato lungo l’ultimo pezzo di viaggio verso il confine Iraniano.

Passammo la notte successiva a Goris, una graziosa cittadina con strade geometriche e villette circondate da bei giardini, punto di partenza per molti altri monasteri, così come per la strada che porta alla Repubblica Autonoma del Nagorno Kharabag. Decidemmo di lasciare le montagne di quel territorio conteso ad un’altra occasione. L’Iran era vicino e ci stava chiamando. Passammo l’ultimo giorno bruciandoci nel caldo desertico di Meghri, una città polverosa al confine con l’Iran. Pentiti di aver lasciato le fresche montagne verdi alle nostre spalle, non eravamo del tutto pronti per l’ultimo pezzo del viaggio verso Teheran, ma ci dormimmo sopra in un triste parco pubblico prima di attraversare il ponte che porta all’Iran.

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