Avevamo lasciato le caotiche periferie di Istanbul dietro di noi saltellando da un’ auto a un camion e sfuggendo un po’ alla volta dal labirinto di strade, autostrade di cemento. Per la maggior parte della giornata eravamo stati nel rumore del traffico, ma finalmente il verde paesaggio del nord dell’Anatolia circondava l’autostrada. Stavamo per abbandonare la carreggiata per camminare verso un lago dove piantare la tenda, ma un’enorme camion rosso iniziò a farci segnali e si è fermato proprio davanti a noi pur non avendo il pollice in fuori.
Un piccolo uomo tutto eccitato saltò giù dalla cabina gesticolando e facendoci cenni. Chiedemmo dove fosse diretto.
Iraq” gridò tutto contento.
“Noi andiamo a Trabzon”, rispondemmo.
Va bene, è sulla strada, posso portarvi più vicini”.
La sua generosità ci fece credere in lui, avrebbe guidato fino ad Ankara, poi Adana e avrebbe continuato in avanti lungo il confine meridionale di Mardin e infine in Iraq a Erbil.
Era un percorso completamente opposto al programma.
“Ok”, concordammo con molto imbarazzo.
Bilal è un felice arabo da Mardin che trascorre la maggior parte della vita a trasportare vestiti di cotone tra Turchia e Iraq con il suo camion. Ci disse che volle aiutarci perché era quello che un buon musulmano deve fare e lui aveva bisogno di fare una buona azione quel giorno. Parlammo molto interrotti spesso da musica araba. Mantenendo una direzione sud passammo Ankara, eravamo sulla strada per la Cappadocia. Un’inaspettata prima tappa del nostro viaggio, infatti i nostri piani erano già cambiati e la mappa prendeva già un nuovo itinerario.
Il freddo Mar Nero poteva aspettare.

La Cappadocia è una delle destinazioni più famose della Turchia, grazie al suo paesaggio unico, fatto di camini fatati e caverne che furono abitate per migliaia di anni, facendo della regione una delle destinazioni più visitate del Paese.

Lasciammo Bilal addormentato nel suo camion alle quattro del mattino, a metà strada tra Ankara e Adana. Ci diede un passaggio un suo collega che andava nella direzione opposta. Riuscimmo a convincerlo di prendere una strada molto più lunga e ripida verso est nel cuore della Cappadocia.
Presto se ne pentì. In tarda mattinata raggiungemmo la Cappadocia e non avevamo ancora chiuso occhio. Ci arrivammo attraverso una piccola strada che si snodava in una valle verde che a tratti presentava piccoli villaggi greci fatti per la maggior parte di case-caverne abbandonate, ora usate come fienili e stalle dai pastori locali.

Provammo a fare autostop fino all’altopiano, mentre un paesaggio lunare fatto di camini fatati si estendeva davanti a noi. Un piccolo uomo nella sua Ford Tourneo si fermò e ci diede un passaggio. Stava andando al mercato del sabato di Urgup, la città più grande e una delle principali destinazioni turistiche.
Ci ravvivammo con una colazione ricca di uova, formaggio, insalata e tè. Il pasto tipico turco. Impazienti di immergerci in una delle valli, controllammo le nostre tasche per pagare il conto.

Uno dei passaporti mancava.

Freneticamente e ancora assonnati ripercorremmo i nostri stessi passi in lungo e largo per tutta la città. Niente. Era solo il secondo giorno, ma poteva essere già l’ultimo.

Troppo stanchi per arrabbiarci, camminammo in una delle valli circondati da un paesaggio incredibilmente surreale fatto di colonne rocciose e cupole. Montammo la tenda per la prima volta in una piccola radura all’interno di un cerchio di rocce dalle forme falliche.
A menti vuote ed esauste, ci sdraiammo e addormentammo.

Il mattino seguente la pioggia iniziò a cadere nell’esatto momento in cui avevamo smontato la tenda. Non aveva alcun senso restare all’aperto. Dovevamo andare direttamente ad Ankara per vedere se l’ambasciata potesse rilasciare un permesso temporaneo.
Oppure potevamo provare a ritornare nei villaggi per i quali siamo passati all’andata, magari attraversando la via più lunga, ma più frequentata.
Una famiglia con due bambini volenterosi di parlare inglese ci portò quasi a destinazione, dato che erano diretti al cimitero per fare visita ai loro parenti.
Qui lasciammo la strada principale e sperammo che qualcuno ci riportasse nei piccoli villaggi.

Mentre aspettavamo sotto la pioggia torrenziale, due uomini anziani in una macchina malconcia e arrugginita, si fermarono sorpresi di vedere due giovani tremanti dal freddo, lungo una strada percorsa solo da pastori e contadini. Era la stessa strada percorsa il giorno precedente.
Spiegammo loro la situazione e nell’ora successiva venimmo scortati in ogni villaggio cercando una Ford Tourneo. Finalmente venimmo ammessi all’ufficio del sindaco della città di Derbentbasi.
Gli uomini del villaggio si accumularono nell’ufficio del sindaco, fumando sigarette, bevendo tè e discutendo di politica e sport.
Tutti loro vestivano maglie a scacchi, jeans, scarponi di pelle e spessi baffi neri.

Risero del mio turco ma ci diedero un caldo benvenuto. Qualcuno conosceva un uomo che viveva nel vicino villaggio di Başköy, il quale corrispondeva alla nostra descrizione. Dopo qualche telefonata il passaporto risultò ritrovato e tirammo un gran bel sospiro di sollievo. Mentre aspettavamo che il sindaco del paese vicino ci portasse il passaporto, venne portato altro tè e altre sigarette.

Una volta arrivato, ci chiese in cambio di visitare il suo villaggio. Nel frattempo la pioggia era cessata e noi fummo contenti di ricambiare il favore ricevuto.
Ripassando per Başköy, il sindaco ci fece notare le rovine di un monastero del VI secolo sul dirupo alla nostra destra, il quale era dedicato a San Giorgio. Si suppone che il santo provenisse proprio da quel villaggio (o almeno suo padre).
Come prima cosa venimmo portati al municipio dove il sindaco ci mostrò una collezione di foto centenarie raffiguranti il paese quando la popolazione era greca. Le antiche case di pietra greche erano ora totalmente abbandonate, alcune erano diventate delle stalle, altre apparivano malconce rispetto a quelle antiche fotografie che le raffiguravano integre e in buono stato.
Chiesi se i discendenti delle famiglie greche vennero mai a fare visita: solo alcune arrivano dalla Grecia, ma non restano molto e non c’è tanto da fare per loro una volta arrivati.

Ci lasciò passeggiare intorno e potemmo entrare facilmente in ciascuno degli edifici più antichi, alcuni risalenti al VII secolo, ora abbandonati alla decadenza dato che nessuno dispone di risorse per il loro restauro e per ridonargli il loro charme originale.
L’antico municipio greco dev’essere stato uno degli edifici più impressionanti, lo è tuttora, seppur nel suo stato di rovina, riusciva a trasmettere parte della sua gloriosa importanza iniziale.
Sfortunatamente per Başköy e i villaggi vicini i milioni di turisti che visitano la Cappadocia non si spingono così a sud. Dal momento in cui queste zone sono collocate ai margini della regione, i villaggi ricevono solamente una manciata di visitatori l’anno.

La vita è principalmente rurale e basata sulla terra, infatti ogni centimetro della valle è coltivata.
I salti di roccia intorno alla città sembravano formaggio svizzero, punteggiati da migliaia di caverne di tutte le misure, alcuni dei quali furono sicuramente abitati per lunghi periodi, come piccoli appartamenti con svariate stanze.

Ci dissero di ritornare a Derentbasi lungo la valle, una delle più profonde e spettacolari della regione. Venimmo travolti da una grandine violenta e i nostri amici del municipio organizzarono un recupero in macchina.

Gli uomini erano di nuovo seduti tutti insieme, ci guardavano con attenzione, disorientati dalla nostra presenza e dai nostri piani di viaggio, ma evidentemente divertiti.
Ancora una volta bastarono pochi minuti e qualche parola per farci sentire i benvenuti.

Le dure facce di questi uomini, scavate dalle difficili condizioni di vita in una delle aree più povere della Turchia rurale, si sciolsero nell’ospitalità e nella gentilezza con la quale ci avevano accolto, versarono altro tè e continuarono ad annuire in segno di approvazione alle nostre irregolari conversazioni.

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