Il treno Doğu Express (Orient Express) parte da Ankara per il suo lungo viaggio verso il Nord-Est della Turchia e raggiunge Kars dopo un’intera giornata serpeggiando sui binari attraverso l’Anatolia. Partimmo nel tardo pomeriggio dopo aver deciso di raggiungere i monti del Kaçkar e il confine Georgiano in treno. Con l’arrivo del buio ci addormentammo immediatamente nel nostro scomparto privato, aspettando trepidamente l’alba e i primi scorci della natura dell’Anatolia.
Inchiodati al finestrino, osservavamo il paesaggio scorrere dalla nostra comoda nicchia nell’ultima carrozza del treno, verde e sbocciante tra le colline frastagliate, mentre il treno faticava lentamente sui binari. Per gran parte del viaggio, la ferrovia era l’unica opera umana visibile, mentre il lento balbettio ritmico del treno si alternava con il ruggito del fiume accanto.

Una volta raggiunta Erzurum, 20 ore più tardi, non potevamo attendere un minuto di più sul treno. Il paesaggio era diventato gradualmente più selvaggio, le vette lontane si erano avvicinate ed erano ancora coperte di neve. Volevamo raggiungerle quella sera stessa.

La città di Erzurum si estende su un vasto altopiano ad oltre 1700 metri sopra il livello del mare. Durante la sua storia ha visto ondata dopo ondata di conquistatori ed eserciti dall’Est e dal Nord, ritrovandosi sotto dominio Persiano, Russo e Ottomano solo negli ultimi 200 anni. La sua posizione geografica ed altitudine le hanno attribuito un’importanza strategica militare per tutti e tre gli imperi. La comunità Armena di Erzurum, una delle più numerose dell’Impero Ottomano, è stata completamente eliminata durante il genocidio. La città, abbiamo scoperto durante il nostro viaggio, ha mantenuto comunque una forte importanza simbolica tra gli Armeni.

Saltando da una macchina all’altra mentre ci avviavamo verso il nord e le montagne, sorseggiavamo tè nelle piazzette dei piccoli villaggi lungo la strada, mangiando Çağ Kebab grigliato allo spiedo, la specialità locale di carne d’agnello, grasso di coda, yogurt e cipolle servite uno spiedino dopo l’altro finché non realizzammo che spettava a noi fermare il cameriere dal portare nuove portate.

Non avevamo una destinazione particolare in mente ma ci affidammo ai consigli degli autisti che ci prendevano, finché non decidemmo di visitare un antico monastero Georgiano consigliato dall’ultimo autista, una chiesa incuneata in cima ad una delle valli che si aprivano ai lati della strada. Il nostro nuovo compagno Adem decise di accompagnarci, anche se significava spingere la sua vecchia auto su per strade sterrate e salendo ripidamente per addentrarci nelle montagne, e deviando da casa sua per due ore abbondanti. Una volta raggiunto il villaggio di Çamlıyamaç fummo sopraffatti dalla dimensione enorme di Osk Vank, una chiesa monumentale in pietra costruita oltre 1000 anni fa. Questo complesso monastico era stato il più importante nel principato feudale Georgiano di Tao, che dominò questa regione tra il 9° e 11° secolo, e dopo essere stato convertito in moschea per oltre 5 secoli, appartiene oggi alla lista degli edifici protetti dello stato, nonostante il suo stato di cura sembrerebbe suggerire altro. Salutammo il nostro nuovo amico, comprammo alcune provvigioni, e dal momento che si faceva sera, ci incamminammo per un sentiero che saliva dietro il villaggio lungo il ruscello. Una volta lasciati alle spalle le ultime capanne in legno trovammo un’apertura piatta ed un prato di erba tagliata fine dove poter montar la tenda, appena sopra il fiume. Non sapevamo dove ci avrebbe portato il sentiero il giorno dopo, ma non ce ne preoccupammo troppo.

Passammo l’intero giorno seguente camminando in salita fino ad oltrepassare la linea della neve, spesso trovandoci a dover trascinare le gambe sommersi nella neve mentre si scioglieva letteralmente sotto i nostri piedi. Acqua gocciolava e scorreva tutto intorno a noi. Attraversammo cascate ed innumerevoli ruscelli dove ci siamo lavati. L’unico modo per orientarci, una foto che avevamo fatto sul telefono di una mappa impressionista dei sentieri trovata accanto al monastero. In ogni caso, sapevamo di essere in direzione della valle del fiume Çoruh, sul lato opposto della linea dei monti. Finalmente raggiungemmo il punto più elevato del nostro sentiero ed il paesaggio ci esplose davanti agli occhi. Le vette dei monti Kaçkar racchiudevano l’orizzonte, ed il Kaçkar Dağı dominava la scena, la sommità innevata brillando sotto la luce del sole. Dopo una breve discesa ci ritrovammo in mezzo ad un piccolo villaggio composto da poche case ed una vecchia moschea. Gli alberi erano stati tagliati intorno al villaggio, ed i campi erano impeccabilmente mantenuti.

Come al solito, gli uomini del villaggio erano radunati fumando in silenzio seduti sulle panchine che circondavano il perimetro della moschea. Scambiammo dei laconici Salam Alaykum e ci unimmo al gruppo. In queste aree della Turchia le persone sono conosciute per essere molto meno loquaci, e gli abitanti della regione del Mar Nero vengono spesso presi in giro per le maniere scorbutiche. Nonostante ciò ci accolsero amichevolmente, mentre fumavano all’aperto giocando con una cucciolata di pastori tedeschi. Voci smorzate provenivano dall’interno della moschea, l’atmosfera generale era molto sobria e suggeriva l’idea che i presenti fossero in lutto. Ed infatti un signore anziano ci invitò a prendere tè e zuppa in casa sua, lontano dall’umore grave che si respirava intorno alla piccola piazza. Un uomo alto e molleggiato, viveva solo, in una casa decorata con le fotografie dei figli e parenti che ora vivevano altrove.

Ci parlò delle elezioni che si avvicinavano, del suo disgusto per Erdogan e il partito al governo: “Io sono del CHP” ci disse con orgoglio battendosi il petto con il dito. Gli chiedemmo come mai così pochi giovani vivessero nel villaggio. Come nel resto dell’Anatolia Orientale, soprattutto nelle aree rurali, le persone si sono trasferite in massa verso le città dell’Ovest, soprattutto lungo la costa, o sono emigrati all’estero. Lo ascoltammo mentre ci spiegava come molti tornano ancora in estate per aiutare durante le fasi più dure del lavoro nei campi, ma la maggior parte ormai ritorna solo per brevi visite per fuggire le ondate di caldo della costa mediterranea.

Quella notte ci accampammo su una collina dietro il villaggio scegliendo con cura il punto esatto dove piantare la tenda così da poter godere della migliore vista possibile delle montagne che ci circondavano. Non so se fosse dovuto al periodo dell’anno, o a quel punto in particolare, ma non ricordo di aver mai visto un luogo così intensamente verde. Quella notte era senza luna, e le stelle sembravano brillare appena pochi metri sopra le nostre teste. Ci svegliammo tremando dal freddo non appena i primi raggi di sole penetrarono la tenda, che durante la notte si era coperta di uno spesso strato di brina.

Continuammo il cammino il più a lungo possibile fino a raggiungere una manciata di case, troppo poche per essere definite un villaggio. Qui un signore ci indicò di prendere la strada sterrata sull’altro lato della valle. Quella strada ci avrebbe potati direttamente giù alla valle del fiume Çoruh. Notammo subito camionette scendere a fatica sulla strada lasciandosi dietro nuvole di polvere spessa. Una si fermò non appena l’autista ci vide, ci invitarono a salire e sederci in cima alla cabina. Il container aperto era carico di carbone, inchiodammo i nostri scarponi dentro le pietruzze nere per tentare di darci equilibrio. Accanto a noi un minatore con la faccia nera sorrideva e rideva maniacalmente ogni volta che prendevamo una curva stretta, i denti bianchi brillando in contrasto con la sua faccia nera di fuliggine, chiaramente divertito ad osservare i nostri sguardi di terrore mentre guardavamo in basso verso centinaia di metri di vuoto, ed i nostri zaini ci sballottolavano violentemente a destra e sinistra.

Ci indicò la miniera e ci spiegò che era profonda oltre mille metri. Il costone della montagna qui era coperto di mucchi di spazzatura, alberi non ce n’erano più, solo la roccia nuda e secca, e la strada polverosa che intagliava il lato della montagna in una spirale.

Cavalcammo la camionetta in questo modo, con le mani che stringevano forte la cabina, i piedi allargati immersi nel carbone, per oltre un’ora, serpeggiando in discesa lungo i cerchi di questo inferno ambientale. Una volta raggiunto il fiume Çoruh il peggio non era ancora passato. Per attraversarlo le camionette dovevano superare un piccolo ponte sospeso in legno che dondolava minacciosamente, preceduto da segnali che avvertivano di una morte sicura chiunque avesse tentato attraversarlo. Evidentemente i minatori non contano.

Al deposito ringraziammo i minatori e proseguimmo in autostop. A questo punto le montagne erano completamente spoglie, denudate di ogni albero o pianta, segnate da strade sterrate su ogni lato come cicatrici, mentre camion trasportavano i loro carichi sporchi ai depositi nella valle. Le sponde del fiume trasformate in cemento armato, domando la forza del fiume e lentamente trasformandolo in un calmo lago artificiale. Stavamo per raggiungere una diga, un finale scontato del nostro cammino cominciato in un paesaggio da sogno tra le montagne e terminato in un incubo di cemento.

Il governo turco ha pianificato la costruzione di tredici dighe sul fiume Çoruh per la produzione idroelettrica. Sono ancora in fase di costruzione, ma l’impatto ambientale è già incalcolabile. Nei due anni trascorsi a cavallo dei miei due viaggi lungo questo fiume ho visto il paesaggio completamente cambiato e rovinato. In un paese gestito da una classe dirigente che ha messo lo sviluppo sopra ogni altra questione, le preoccupazioni sull’ambiente sono state completamente ignorate e occupano poco spazio nell’opinione pubblica del paese.

Presto comunque saremmo arrivati in Georgia, con la speranza di lasciarci alle spalle la cementificazione sfrenata dell’Anatolia, fiore all’occhiello di un governo che ha messo lo sviluppo al primo posto della propria agenda politica, uno sviluppo incontrollato ed a qualunque costo.

 

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